In Patagonia di Bruce Chatwin è un susseguirsi di incontri, strani personaggi e storie di un tempo che pare ormai dilatato nei ricordi di un secolo intramontabile. Parigi, 1973. Di fronte a due tazze fumanti di the indiano, Bruce Chatwin sta intervistando l’architetto novantatreenne Eileen Gray per conto del suo giornale, il Sunday Times Magazine. Fuori dalla finestra le fresche folate di vento spazzano via i ricordi dell’estate, lasciando spazio all’autunno ormai imminente. Fra una domanda e l’altra Chatwin viene rapito da un quadro appeso alla parete: è una mappa della Patagonia che la Gray aveva dipinto. “Ho sempre desiderato andarci” esclamò Bruce, “Anche io” rispose lei, “Ci vada al posto mio”. Entusiasmato dall’idea, Chatwin partì per l’Argentina; una volta giunto in Sud America, scrisse al suo giornale, licenziandosi. Così iniziò il suo viaggio “In Patagonia”. Sheffield, 1950. Spiccava in bella mostra nella credenza della sala da pranzo della nonna quasi come fosse una medaglia al valore della famiglia. Un po’ era come se lo fosse, visto che il piccolo fossile appartenente ad un animale preistorico che il giovane Bruce ammirava insistentemente e che tanto bramava, fu inviato proprio da un suo antenato, il capitano Charley Milward, in Inghilterra, a dimostrazione delle immense sorprese celate nella Terra del Fuoco. La Patagonia era un richiamo continuo per Bruce, tant’è che lui ed i suoi compagni di scuola progettavano di rifugiarsi laggiù qualora Stalin avesse deciso di attaccare la vecchia Europa con una bomba al cobalto.
““(..) chi percorre il deserto scopre in se stesso una collina primitiva (nota anche al più ingenuo dei selvaggi) che è forse la stessa cosa della Pace di Dio””Da Buenos Aires a Bahia Blanca, 1974. Ultimo avamposto prima della Patagonia. Ormai ci siamo. Zaino in spalla per tutta la regione fra treni e mezzi di fortuna, alla ricerca del contatto con gli abitanti del posto. Verso la scoperta delle storie più incredibili che possano aver cavalcato queste terre. “”Di che religione siete?” chiese Alì, “Cristiana?”.
“Stamattina non sono di nessuna religione. Il mio Dio è il Dio dei Viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio”Scorrendo le pagine del libro, ci accorgeremo che non si troveranno grandi descrizioni paesaggistiche, ma il racconto di questo lembo di mondo emergerà più che altro dai personaggi e dalle loro storie raccontate in maniera asciutta e lapidaria, con puro stile giornalistico e con l’utilizzo di aggettivi e parole ricercate. Un’altra peculiarità che si percepisce dalle parole dello scrittore, è l’amore smodato che ha per questa terra, per le sue case di mattoni che brillano come scaglie di sangue al sole, per le pareti fatte di lamiera ondulata che ballano all’incitare del vento, talmente forte da bruciare la pelle e soprattutto noteremo la profonda curiosità mostrata per quelle persone che abitano in Patagonia e che cercano di ricreare, talvolta senza riuscirvi, il sogno o la speranza delle loro origini. “Nessun suono tranne quello del vento” La cartolina che fa da sfondo a questi luoghi è quella di una terra fredda dai forti tratti coloniali e con un paesaggio desertico comunque capace di regalare tramonti indimenticabili che colorano le colline di oro e di porpora, dove le montagne blu svettano verso il cielo, i fiumi ed i laghi tracciano confini ancestrali e dove l’inospitale apparenza è catino di mille microcosmi. Una terra, la Patagonia, di salvazione per molti popoli: dai gallesi festanti e sorridenti, agli olandesi piuttosto taciturni e scorbutici, dagli inglesi e scozzesi giunti fin qua per commerciare la preziosa lana, fino agli italiani pronti a bisticciare per dividersi un pezzo di terra ereditata, senza dimenticare le antiche storie delle tribù. Una terra “colonizzata” in un periodo storico che stava finendo la sua propulsione verso la conquista di altri territori, ma che non è sfuggita appunto ad esser presa di mira come una delle ultime frontiera di redenzione.
“”Perché andate a piedi?” chiese il vecchio, “Non sapete andare a cavallo? La gente di qui detesta quelli che vanno a piedi. Li credono pazzi”. “So andare a cavallo” dissi, ”ma preferisco andare a piedi. Mi fido di più delle mie gambe”Dal Rio Negro fino a Punta Arenas, la Patagonia vive di racconti incredibili: leggerete di chi si proclama Re degli Araucani, dell’avventuroso peregrinare dell’antenato di Chatwin ovvero Charley Milward, l’incontro di Darwin con i fuegini e dell’importanza di questa terra per i suoi studi sull’Evoluzione, le tragiche rapine a cavallo della famigerata banda di Butch Cassidy e Sundace Kid , dell’insistente richiamo del mare per l’esploratore John Davis e dei curiosi quanto strambi incontri di Yoshil tra le montagne. In Patagonia di Bruce Chatwin è un libro di travelling litterature nettamente diverso dai canoni di lettura ai quali siamo abituati coi viaggiatori e coi libri di oggi, molto più emotivi e d’impatto, scritti magari con una prosa sicuramente meno prolissa ma più avvolgente, dovuta senz’altro anche alla velocità con la quale siamo destinati a vivere oggi. Chatwin, attingendo a diverse fonti per completare i vari racconti, offre uno spiccato senso di accuratezza, uno stile abbastanza classico e impostato, d’ispirazione vittoriana ma che trasuda sogni e desideri del periodo nel quale lo ha scritto (la fine degli anni Settanta), un momento storico percorso da innumerevoli cambiamenti, alcuni epocali.“Cambiare è l’unica cosa per cui vale la pena vivere”, disse l’autore all’editore Tom Maschler. Oggigiorno invece abbiamo così tante, troppe cose, infinite possibilità di esplorare e conoscere le cose rispetto al passato, che possiamo facilmente perdere di vista la vera essenza del mettersi in viaggio, rischiando di annacquare i nostri sguardi sognanti tramutandoli in lascivi ed indecisi. La profonda curiosità verso l’ignoto, la voglia di conoscere nuove storie e nuovi orizzonti, mettersi in gioco, rischiare la sicurezza delle comodità per qualcosa di ben più profondo. Tutto questo significa viaggiare, anche interiormente. E Chatwin lo fece. Visse per sei mesi in Patagonia, accrescendo la propria esperienza, sviluppando la propria personalità per dare voce al richiamo più intimo che ognuno di noi porta con sé, ovvero quello del cuore. Dovremmo imparare a far esultare i nostri spiriti, a lasciarci trasportare senza meta, senza programmi, spinti soltanto dalla voglia di scoprire cosa c’è nascosto dietro quell’angolo. Togliere i panni usuali, le abitudini quotidiane, vestendosi di nuovo ogni volta che incontriamo un qualcosa di diverso da noi. Il mio personale parere su questo In Patagonia di Bruce Chatwin è che ne consiglio la lettura come incipit alla partenza, come scintilla verso la scoperta di nuovi orizzonti. Seppur la prosa sia pregiata, prediligo racconti dove la natura è l’immagine principale, quadro instancabile per lo spirito e non che ne risulti solo uno sfondo necessario alla cronaca. Le parole, le belle parole sono importanti, ma le considero tuttavia una cornice, non marginale ma secondaria. Questa è la pecca che ho trovato fra queste pagine. Un racconto forse troppo frammentato e attento ai dettagli storici, piuttosto che alle vibrazioni del luogo.